La dolorosa vicenda della giovane olandese che ha deciso di lasciarsi morire per non soffrire più le conseguenze psicologiche delle violenze subite negli anni ci spinge a riflettere su quella complessa fase della vita che è l’adolescenza.
La storia di Noa ha colpito tanti proprio per la giovane età della ragazza, una fase dell’esistenza che la nostra cultura, alle volte in maniera forse un po’ forzosa e retorica, dipinge come l’età della spensieratezza e dell’attaccamento alla vita, che sono cose proprie della giovinezza. La prima ed istintiva domanda che viene alla mente è come sia possibile che a diciassette anni si possa rinunciare alla vita, come sia possibile che quel bagaglio di energie e risorse ancora fresche che un ragazzo o una ragazza hanno dentro di loro non siano state sufficienti a colmare quel vuoto interiore, quel buco nero dell’animo, facendo sì che la giovane potesse guardare avanti, a tutta la vita che le si poneva innanzi.
Sono interrogativi che vanno a scontrarsi con una realtà più complessa di quella che forse siamo abituati a percepire sull’adolescenza. Intanto va detto che l’adolescenza è una invenzione tutto sommato abbastanza recente nella storia occidentale; un tempo esisteva una età dell’infanzia dalla quale si passava all’età adulta, senza fasi intermedie. In effetti l’adolescenza è proprio una età di transizione, in cui possono coesistere elementi dell’infanzia con elementi legati alla naturale evoluzione del corpo e della psiche. Il corpo è forse quella parte di noi che subisce i cambiamenti più vistosi, alle volte una vera e propria rivelazione di una trasformazione in atto, una metamorfosi che viene vissuta a metà fra entusiasmo, stupore e disagio.
Se poi guardiamo alla psiche, scopriamo che l’adolescente è una creatura fragile: tanto li vediamo spavaldi, strafottenti e pronti alla sfida, tanto sono fragili interiormente poiché, nell’età della trasformazione, la prima cosa che hanno perduto è proprio quella sicurezza che appartiene all’infanzia. Una sicurezza che si lega alla famiglia, anzitutto. I genitori, da un momento all’altro, non appaiono più quelle ancore e quei fari ai quali riferirsi in tutto e per tutto, il mondo si allarga, ci sono le amicizie che si trasformano in qualcosa di più profondo, c’è il senso di appartenenza generazionale che segna la misura della distanza dal mondo di ieri e dal mondo degli adulti. È un momento di “crisi”, dove tale termine non ha affatto connotazioni negative, anzi, è una crisi evolutiva, di crescita interiore.
Si rimette tutto in discussione: le idee sul mondo, sulla famiglia, su se stessi. La stessa ribellione adolescenziale non è da considerare come uno strappo violento verso l’autorità (la famiglia, la scuola) ma una sperimentazione di autonomia, di indipendenza, con tutto il bagaglio di ingenuità e di errori che si possono – e si devono – compiere. Insomma è un passaggio complicato che, come genitori, conosciamo nella sua spesso estenuante e faticosa quotidianità.
È un’età fragile da accudire e accompagnare nella giusta modalità, che non è quella di chi cerca a tutti i costi di proteggere il giovane preservandolo dalla vita reale, né quello di chi abbandona alla deriva dell’esistenza il proprio figlio. La giusta misura, probabilmente, ogni genitore la deve cercare dentro il rapporto e la relazione che sono uniche. E non è sempre una età spensierata, anzi, è il momento in cui certi nodi vengono al pettine e vanno affrontati prima che facciano del male, proprio perché è l’età della crisi, del passaggio, in cui ognuno porta con sé il proprio bagaglio esistenziale dell’infanzia.
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12/06/2019 10:06:41 di Fabio LimitiPurtroppo le vicende di disagio di moltissimi adolescenti confermano la gravità di un problema spesso disconosciuto dalle istituzioni (sanitarie, educative) e la inadeguatezza degli operatori nel sociale, a parte qualche rara eccellenza.
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