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La patente femminista, 'Piccole Donne'

11/01/2020 di Maria Medici

Con “Piccole donne”, per la regia di Greta Gerwing, in uscita questi giorni in Italia, siamo arrivati al sesto adattamento per il grande schermo del noto romanzo di Louis May Alcott, pubblicato nel lontano 1868, che racconta le vicende delle quattro sorelle March.


In Italia per tantissimo tempo il romanzo della Alcott è stato in cima alle classifiche delle letture per la gioventù, declinate al femminile, una sorta di lettura speculare ai “Ragazzi della Via Pal” di Molnar, rivolto al pubblico di giovani lettori maschietti. Forse, anche per questo, il libro alla fine non godette più della meritata considerazione: letteratura in fondo innocua, piuttosto rassicurante circa il destino femminile, ammaestrativo al punto da divenire oggetto di insofferenza per chi si occupava di lotte di emancipazione. Eppure, colpevole anche la traduzione proposta alle giovani lettrici italiane, Piccole donne è tutto fuorché rassicurante.

La preoccupazione di produttori, regista e distributori, nonché quella dei critici che se ne stanno occupando, è quella di dimostrare l’attualità di questo ulteriore adattamento cinematografico. Così “Piccole donne” del 2020 ha ricevuto già diversi “lasciapassare” da parte di chi decide se trattasi di pellicola politicamente corretta verso le donne.

Anzi, qualcuno ha usato anche il termine “femminismo” nel senso che, viene annunciato, si tratta di una pellicola che non banalizza la situazione delle protagoniste della storia, seppure queste, volente o nolente, sono costrette a seguire in un certo senso le indicazioni sociali e morali del loro tempo.

Io che cerco da un po’ di tempo di occuparmi di questioni femminili devo confessare di non aver mai digerito più di tanto le polemiche che puntualmente toccano la produzione artistica e letteraria del passato, ove in essa si ravvisano più o meno gravi mancanze nei confronti della dignità femminile.

Mi dispiace ma se il romanzo e l’opera Carmen prevedono la morte della protagonista per mano di un uomo siamo liberi di ragionare sul messaggio e sul valore testimoniale di questo lavoro, specchio di un mondo e di una cultura che non ci (dovrebbero) appartenere più. Ma, per favore, la Carmen, così come è non tocchiamola. Al massimo rifiutiamoci personalmete di andarla a sentire.

E lo stesso ragionamento mi verrebbe da fare davanti a tutti i grandi capolavori dell’arte, letteratura e musica d’ogni tempo. “Tempo” è quella parolina che dovrebbe farci riflettere: sono affreschi il cui valore deve partire da una saggia contestualizzazione delle trame e dei contenuti.

Lo stesso dicasi dell’opera di Alcott che, al pari di tanta altra letteratura anche prodotta da mano femminile (mi vengono in mente le meravigliose sorelle Brönte) ha una sua validità a cominciare dal suo essere una bellissima testimonianza della condizione delle donne di un certo ceto in una certa società di metà dell’Ottocento, la borghesia nel New England.

Se poi ci si accorge che l’opera (e speriamo anche questo film nella sua fedeltà al messaggio) trasudi una visione femminista – magari un femminismo ante litteram, politicamente anticipatorio delle suffragette, e socialmente illuminante sulle origini delle battaglie emancipatorie delle nostre antenate, sarà tutto di guadagnato. Un valore aggiunto ad un capolavoro letterario che non ha comunque bisogno di patenti di nessun genere per essere apprezzato.



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