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L’Europa muore a Lesbo
07/03/2020 di Maria Medici
Le notizie e le immagini che arrivano dal confine turco-greco in cui si sta consumando il dramma di decine di migliaia di profughi siriani, oltre a comunicarci il dolore di quegli esseri umani, paiono veramente simboleggiare il tramonto della civiltà europea.
Una simbologia resa ancor più forte dal fatto che quella terra, la Grecia, è state la culla di questa civiltà. Essa sembra spegnersi laddove millenni orsono era sbocciata.
Si spegne e muore perché essa non è riuscita evidentemente a produrre gli anticorpi giusti al virus della divisione e dell’egoismo ma anche perché sembra aver cessato di avere una missione di civiltà nel mondo. Non è colpa degli abitanti di quei luoghi, seppure sembra che a fomentare le loro reazioni vi sia il contributo di organizzazioni neofasciste.
Del resto, le stesse autorità greche non si sono distinte per tolleranza verso quei disgraziati sui barconi. Le colpe sono più complesse e ricadono su di una Europa che non è riuscita, ancora una volta, ad imporre agli attori in gioco (Siria, Turchia, Russia) una agenda che fosse fondata sui quei valori irrinunciabili che dovrebbero essere alla base delle nostre istituzioni comunitarie continentali.
La questione, infatti, non può risolversi solo sul fronte dell’accoglienza dei profughi, fronte peraltro essenziale in una comunità di Stati di diritto qual è l’Unione Europea. C’è bisogno che l’Europa intervenga direttamente e con più coraggio nella questione che contrappone interessi opposti in un’area così martoriata.
Oggi è la sola Russia ad apparire nella veste di arbitro nelle contese che oppongono turchi, siriani e curdi. E, come sappiamo, non è un arbitro disinteressato. Se l’Europa non vuole morire a Lesbo, deve farsi sentire e con forza.
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