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Quando la politica si fa “bella”: una vicenda del nostro passato

06/11/2020 di Maria Medici

È di questi giorni l’uscita del libro I treni dell’accoglienza. Infanzia, povertà e solidarietà nell’Italia del dopoguerra 1945-1948 di Bruno Maida (Einaudi) in cui viene raccontata una bella pagina della storia di un Paese appena uscito dalla tragedia della guerra e del fascismo ma con la voglia di ricominciare.



Lo sforzo dell’autore non è solo quello di riportare la fedele cronaca di alcune iniziative che in quello scorcio di tempo furono organizzate per dare sollievo ai bambini soprattutto nelle aree più povere del Paese ma anche di porre in luce come, cosa che oggi suona quasi strana, sia stata possibile (e l’auspicio che lo sia sempre) una “bella politica”.

La bella politica è quella che, pur fra le mille difficoltà e gli irrigidimenti d’ordine ideologico, strategico o pragmatico, riesce nel suo compito più nobile: innalzare e difendere la dignità dei cittadini. Nel caso in questione, la dignità è quella legata ai bisogni dei bambini, i cittadini più indifesi, che la guerra aveva prostrato, traumatizzato, resi orfani non solo alle volte delle proprie famiglie, ma anche della fanciullezza, cresciuti in fretta tra le bombe e le macerie e costretti a divenire adulti anzitempo per sopravvivere in un mondo che poco di loro si poteva occupare in quel frangente storico.

I treni di cui parla il libro sono quelli che il Pci e l’Unione Donne Italiane organizzarono per condurre decine migliaia di bambini poveri, in particolar modo del Meridione, nelle regioni del Centro-Nord (specie in Emilia Romagna) dove furono ospitati anche per lunghi periodi dalle famiglie del luogo. Si trattò di un trasferimento di popolazione in grande stile che aveva come compito primario l’urgenza di sostenere questi bambini denutriti nel corpo, ma anche quella di offrire loro un ambiente sereno dove poter finalmente vivere la legittima età della fanciullezza.

Tante case contadine dell’Emilia e della Romagna divennero così per migliaia di bambini una seconda famiglia in cui si svilupparono relazioni destinate a durare anche dopo il ritorno al Sud e per tutta la vita. Si trattò di uno sforzo enorme sul piano logistico. Da questa vicenda emerge un antico solidarismo, che ha le sue radici in certi valori di fratellanza caratteristici del movimento operaio della fine del XIX secolo, ma anche nel sostrato dell’evangelica carità verso il prossimo, solidarismo che racchiude anche lo sforzo di una unità nazionale compiuta non nel nome del tronfio nazionalismo, che aveva condotto l’Italia nel baratro della guerra, bensì realizzata attraverso il principio di solidarietà, dell’aiuto e condivisione da parte di chi poteva disporre sul desco di un piatto di minestra “in più” da offrire a chi non ne aveva.

Quanto può insegnarci la storia a noi che, nel secolo XXI siamo alle prese con nuovi o mai sopiti egoismi individuali e nazionali.


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06/11/2020 14:19:06 di Carla Bignotti
Sapevo di questi fatti di solidarietà nel nostro re cente passato e mi fa piacere sapere che ne sia stato realizzato un libro.




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