In un interessante reportage di qualche anno fa sulla rivista “Doppio Zero”, si raccontano le difficoltà delle donne in Israele, soprattutto a causa delle frange più ortodosse che chiedono a gran voce una sorta di “separazione” tra i due sessi anche nelle forme più elementari della vita sociale.
In quel reportage si racconta dell’episodio in cui una ragazza, tra l’altro militare, fu apostrofata come “puttana” da un passeggero di un bus solo perché non aveva preso posto nella zona del mezzo riservata alle donne. Quella della separazione rigidas è una consuetudine che col tempo si è trasformata in una pratica difficile da spezzare. L’aspetto interessante è però che il tribunale ha condannato il passeggero a partire dall’accusa per molestie sessuali. Un paradosso, sembrerebbe, dato che l’uomo aveva cercato di allontanare la donna da sé, ma che tale non è poiché per il giudice la molestia su base sessuale era passata attraverso l’umiliazione della giovane donna.
Mi sono permessa di riportare questi episodio di qualche anno fa perché comunque illumina bene la questione femminile all’interno di una società complessa come quella israeliana, che appare essensialmente come una realtà vicina all’Occidente ma che conserva al suo interno, anzi, sembrano rafforzarsi, atteggiamenti fortemente intrisi di religiosità ma tradotti alle volte in un significativo conservatorismo integralista, qual è quello rappresentato spesso dalle posizioni ultraortodosse. Le donne israeliane non stanno a guardare. Importanti iniziative vengono prese di continuo per evitare questa sorta di apartheid al femminile. La compagnia di bandiera El Al, è stata di recente obbligata a non operare in modo discriminatorio nei confronti delle donne, dopo che un’anziana di 81 anni è stata costretta a cambiare posto su di un areo perché ultra-ortodosso non la voleva seduta accanto a lui.
Una preoccupante deriva di questo atteggiamento discriminatorio la si trova però anche al di fuori della cerchia conservatrice, la quale comunque rappresenta una significativa fetta della popolazione totale (12% ), per cui, ad esempio, un notissima catena di vendita di mobili e accessori per la casa ha stampato dei cataloghi, subito ritirati a causa delle proteste di associazioni femminili e non solo, in cui si raffiguravano spazi casalinghi “bonificati” da qualsiasi presenza femminile.
Se da un lato, poi, le stesse istituzioni israeliane appaiono restie ad accogliere le rivendicazioni delle donne, anche per le difficoltà a fare accettare la sostanziale parità dei sessi dalla fetta più integralista della popolazione, dall’altro rimane molto grave la situazione delle donne appartenenti a tale segmento sociale. Nelle comunità ultraortodosse regna la quasi totale subordinazione della donna nelle famiglie in cui il loro principale compito è quello della procreazione, senza possibilità di poter emergere nel mondo delle professioni, né tantomeno in quello degli studi.
Non dissimile nella sostanza, seppure in forme articolate diversamente, appare spesso la situazione delle donne nei Paesi musulmani dell’area araba e nordafricana. Non è certo possibile, qui, affrontare in modo esauriente un argomento del genere, tuttavia si possono individuare alcuni nodi di fondo utili a conprendere la situazione. Del resto, il ruolo che le donne rivestono nel mondo musulmano è utile per capire quanto è mutato o quanto deve ancoa mutare il mondo islamico affinché il concetto di liberazione femminile possa risultare significativa forma di progresso generale. Va detto che i parametri che solitamente siamo abituati ad usare per analizzare il rapporto fra progresso socioeconomico e l’eguaglianza tra uomo e donna, non sempre risultano validi al di fuori dell’Occidente. Un esempio è l’Arabia Saudita, Paese ricco e industrializzato, all’avanguardia in taluni campi produttivi, che però conserva fortissime discriminazioni nei confronti delle donne. Del resto, non è possibile parlare di “donna musulmana”, come se si trattasse di un “modello” sociale prestabilito, dato che la situazione femminile nei paesi islamici varia, ed anche di molto, a seconda delle diverse culture.
Le stesse leggi che regolano l’accesso delle donne alla vita socioeconomica sono molto diverse da Paese a Paese e non evidenziano quella certa omogeneità presentata, al contrario, dalle società occidentali. Attualmente, organizzazioni internazionali, come l’Onu, ma anche organizzazioni governative e associazioni di donne islamiche si stanno muovendo in direzione di un mutamento negli atteggiamenti politici e giuridici sulla condizione delle donne. Lo stesso concetto di Islam non può essere imputato come responsabile per la condizione subordinata delle donne, dato che spesso sono state le secolari interpretazioni del Corano ad aver realizzato tale situazione.
Nella prima diffusione dell’Islam, anzi, le donne avevano garantiti numerosi diritti, anche più di quelli previsti da codici giuridici o da altre religioni. La questione, dunque, è squisitamente politico-culturale, dal momento che precetti religiosi, interpretati a seconda del momento culturale, si sono innestati nel tempo, in strutture sociali specifiche. Per cui, pur mantenendo una sostanziale parità teologica, le donne subiscono una disparità sociale.
Insomma, si evidenzia un legame profondo fra le difficoltà a condurre una battaglia per la parità di genere, caposaldo in una società moderna, e la strutturazione di una specifica interpretazione religiosa che fatica ad evolversi dentro le società in mutamento. Resta da vedere quanta forza dimostreranno le donne israeliane e quelle musulmane contro queste forme di discriminazioni e quanto tali battaglie possano produrre un avanzamento sociale generale.
Commenti:
19/12/2018 17:08:15 di AlbertMi sembra fuorviante e ridicolo paragonare la situazione delle donne in Israele, dove tutte studiano e hanno uguali diritti come gli uomini, a quella dei paesi Islamici, dove sono sempre, per legge, cittadine di serie B, spesso tenute nell'ignoranza e trattate come schiave.
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